Cos'è il marketing inclusivo? Ne parliamo con Ginevra Candidi

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Abbiamo conosciuto Ginevra a Modena, durante i giorni di Play Copy 2022. Ci è piaciuta subito, tra un tortellino in brodo a luglio e una serie di interventi pazzeschi sulla comunicazione. Ginevra Candidi alias Il lato b del marketing, si occupa di comunicazione inclusiva e la Pesce, che a questo argomento tiene molto e lo guarda sempre con interesse, ha voluto ospitarla qui, nel Che Si Dice, per diffondere almeno un pezzetto di questo mondo così grande. E imparare qualcosa in più.

Ciao Ginevra e grazie per essere nel Che Si Dice della Pesce. Andiamo subito al punto. Consulente di marketing inclusivo: chi sei, cosa fai, come aiuti persone e brand in una strategia di comunicazione?

Piacere mio! Il mio lavoro da consulente di marketing inclusivo è molto variegato, ma nella vita di tutti i giorni aiuto brand e personal brand a comunicare in maniera efficace e d’impatto, senza tradire i propri valori. Per farlo, realizzo delle strategie digitali che siano rispettose dei diritti e delle unicità di ogni persona. 

Quando si parla di una strategia, infatti, soprattutto se inclusiva, è fondamentale ricordare che non esiste una soluzione universale per ogni persona: ogni caso o brand è a sé e le soluzioni universali – purtroppo o per fortuna – non esistono. Ma provo in ogni strategia ad avere un file rouge: diversità, divertimento e un po’ di pop.

Una curiosità: come sei arrivata a occuparti di comunicazione inclusiva e a mostrare il lato B(uono) del marketing?

Per tanto tempo mi sono sentita inadeguata. Ho studiato scienze politiche e diritti umani, ho fatto diverse esperienze, ma nulla che coniugasse i miei interessi al 100%. Ero insoddisfatta e non mi piaceva esserlo. Per questo, durante la pandemia, ho deciso di sperimentare un po’, studiando ogni corso che trovavo online sul marketing e la comunicazione, mia passione da sempre.

Guardandomi attorno, non ero convinta che quello che avessi di fronte fosse giusto: una comunicazione spesso incentrata solo degli stereotipi: donne bianche sempre magre e sorridenti, uomini che non piangono mai, persone anziane inesistenti o quando esistono, rigorosamente sempre senza rughe. Non era questo il mondo che vedevo intorno a me. Con questa idea, è nato Il lato b del marketing, per raccontare e costruire il marketing che ci meritiamo.

Perché l’inclusività può aiutare una persona o un brand ad aumentare il profitto?

Negli anni, l’inclusività è diventata un valore fondamentale per le scelte di acquisto. Soprattutto le generazioni più giovani tendono ad acquistare maggiormente e con più frequenza da un brand che si è dimostrato inclusivo nella propria comunicazione. Questo deriva da un grande cambiamento culturale che sta avvenendo nel mondo (in Italia più lentamente, ma ci arriveremo): non basta più comunicare con degli stereotipi vecchi, triti e ritriti. Bisogna essere rilevanti per le persone, rappresentarle, comunicare con loro. E questi stereotipi non sono più attuali, anche se i social, la politica, la tv ce lo fanno credere in ogni modo. 

Il marketing inclusivo è proprio questo: dare spazio alle unicità creando una relazione profonda con le persone.

E che funzioni non lo dico io, ma lo dicono i dati: oltre il 70% delle persone intervistate per una ricerca di Microsoft ha dichiarato di acquistare più volentieri da brand che si dimostrano autentici e che rappresentano le diversità.

Leggi la ricerca di Microsoft

Quali sono gli errori più comuni che rendono una comunicazione poco inclusiva?

Gli errori possono essere tanti. Possono partire dalle fondamenta: pensare che il nostro prodotto o servizio non sia rilevante per un certo pubblico. Ad esempio, il settore del gaming in Italia e nel mondo perde ogni anno molte possibilità. La maggior parte della comunicazione di questi brand è rivolta a uomini, con immagini di donne ipersessualizzate e spesso con parole declinate solo al maschile. In realtà, solo in Italia il 40% delle persone che giocano sono donne. Quante opportunità sprecate, vero?

Un secondo errore può essere nell’implementazione di una strategia: molto spesso si usano parole poco corrette, come ad esempio termini declinati solo al maschile nonostante ci si rivolga a un pubblico di donne o di persone non binarie. Il linguaggio inclusivo, poi, non è solo una questione di genere: usare le parole giuste per parlare con le persone disabili, razzializzate o marginalizzate è fondamentale per avere una comunicazione inclusiva e non va sottovalutato. I danni alla propria reputazione possono essere grandi. 

Anche le immagini che scegliamo sono importanti. Se continuiamo a utilizzare per il nostro sito, social o newsletter, sempre l’immagine di un uomo bianco, eterosessuale, tra i 30 e i 40 anni, attireremo solo quella tipologia di pubblico e veicoleremo un messaggio sbagliato.

Si parla spesso di pinkwashing, rainbow washing e greenwashing*: come riconoscere le aziende che hanno solo una facciata etica? Puoi farci un esempio pratico di un’azienda che ha vantato inclusività senza rispettare quei valori?

Non è sempre facile riconoscere questi comportamenti scorretti, perché le aziende sono diventate sempre più brave nel veicolare il messaggio che vogliamo sentirci dire.

La prima cosa da fare è farsi tante domande: non dimentichiamo chi abbiamo davanti e cerchiamo informazioni online per controllare se i messaggi lanciati durante le campagne o nei comunicati rispecchiano effettivamente le priorità dell’impresa. Per esempio, se un’azienda si dichiara femminista, vediamo chi è ai vertici: un uomo o una donna? Lo stipendio tra un dipendente e una dipendente è uguale? Com’è la loro comunicazione online? Usano solo foto di persone socialmente considerate belle?

Una regola fondamentale del marketing inclusivo è che alle parole devono seguire i fatti. Dichiararsi a favore di una causa sociale e non mettere in pratica quello che promettiamo non serve a nulla.

Un esempio di pink washing è il caso di Intimissimi. Più volte il brand ha cercato di veicolare messaggi inclusivi, come ha fatto ad esempio in questo spot.

Il messaggio è chiaro: accettati così come sei, ama ogni tua forma. Ma il problema di questo spot è che vuole far passere i corpi delle modelle nel video come corpi non magri, non conformi. Nella realtà, queste donne sono socialmente accettate e non rappresentano la diversità da quello che il marketing ci ha insegnato fosse lo standard. Sono donne magre, senza nessun difetto.

Un altro aspetto problematico di questo spot è proprio nell’idea: la pubblicità vuole raccontare come siano inclusive le taglie, ma la realtà è un po’ diversa. Infatti, queste taglie di reggiseno non sono davvero disponibili nei negozi, ma solamente online. E non è giusto che chi ha una settima (o oltre) di reggiseno debba comprarlo online, senza poterlo provare. Si vede, in questo caso, che era più che altro un’operazione di facciata.

*Si tratta di pratiche di marketing affatto etiche per le quali un brand sposa una causa (nell’ordine: femminista, LGBTQIA+ e ambientale) solo per aumentare le vendite ma senza mettere in atto azioni concrete per sostenere quelle cause.

Avere un’attenzione per la comunicazione inclusiva è compito solo di un brand? O ogni persona, nel suo piccolo e sul suo privato profilo social, può fare qualcosa?

Le aziende in questo momento sono cruciali, perché abbiamo attribuito loro la responsabilità di agire il cambiamento, di cambiare le cose. E c’è un fondamento in questa scelta: la pubblicità e la comunicazione riflettono sì quello che è la società oggi, ma influenzano molto quello che pensiamo del mondo. Chi fa comunicazione ha una grande responsabilità.

Ma ogni persona può fare la differenza, a partire dai social media. Usando le parole giuste, commentando in modo educato senza polarizzare ogni questione, rispettando le identità delle persone e diffondendo messaggi basati sul rispetto.

Si può fare la differenza anche in una conversazione tra amici o amiche: se sentiamo dire a una persona a cui vogliamo bene che “le persone trans non hanno senso” o varie declinazioni di questo tipo, interveniamo. Spieghiamo. Prendiamo parola (quando ci sentiamo al sicuro nel farlo). Richiede un grande lavoro anche di decostruzione di tutti gli stereotipi che abbiamo interiorizzato (nessuna persona è esente, nemmeno le più istruite sul tema), ma alla fine, con la giusta compagnia, è anche divertente scomporre e ricomporre un pezzo del grande puzzle che è la nostra società.

Allenarsi a combattere gli stereotipi: si può? Oltre al tuo profilo sul quale leggiamo contenuti sempre utili e approfonditi, puoi consigliarci altre persone da seguire o qualche lettura in proposito?

Si può! Vi consiglio di seguire Smarter in Seconds su TikTok, un profilo che prende gli stereotipi e li ribalta con video dal tono di voce leggero, ironico ma spesso molto puntuale.

Su Instagram, vi consiglio di seguire Sambu Buffa, consulente di marketing inclusivo, che tiene un corso sull’antirazzismo; Sofia Righetti, attivista, per approfondire il tema della disabilità e dell’abilismo; Flavia Brevi ed Ella Marciello, rispettivamente copywriter e art director con un focus sull’inclusività. Da loro imparerete tanto, soprattutto a mettervi in discussione.

Se invece vi piace leggere e la grafica è la vostra passione, vi consiglio Extrabold, un manuale femminista, inclusivo, antirazzista, non binario per graphic design, con tanti spunti interessanti sulla nostra società e – ovviamente – sulla grafica.

“Vorrei che le persone si sentissero rappresentate e vorrei che le aziende comunicassero in modo positivo e d’impatto”. Ci fa piacere salutarti con questa tua frase, augurandoci che questo sogno diventi l’unico modo di agire e non un’eccezione. Grazie ancora!

Grazie a voi! È stato un piacere parlare con voi.

Paola Bernasconi
Paola Bernasconi
Copywriter della Pesce. Il Che Si Dice lo scrive lei.

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